Così, 65 anni fa
iniziò l'avventura
di un giornalista
di Guido Nicosia
Il “bottegone”, all’angolo tra via Bordoni e via Mentana, era il luogo più frequentato della città, alla metà di quegli anni Cinquanta, tranquilli e sonnolenti, ad un decennio appena dalla tragedia della guerra, che si era conclusa lasciando lutto e distruzione. Si eran già fatti passi veloci nella ricostruzione del paese, uscito, finalmente, dal tunnel oscuro della miseria e della tirannide. La gente pensava solo a recuperare il tempo perduto nella stagione calamitosa del conflitto, a progredire, lavorando, a conquistare traguardi di benessere. Pavia ferve di iniziative. E’ l’epoca dei padroncini. Accanto alle storiche fabbriche – la Necchi, la Neca, La Vigorelli – antichi blasoni della città viscontea, nascono tante piccole aziende, alcune diventeranno grandi. I salari non sono alti ma si lavora. Basta avere volontà, non mancano occasioni per far lo straordinario. Si stemperano le tensioni sociali di un tempo neanche troppo lontano. Chi produce può permettersi qualche piccolo agio. Comincia il tempo dei consumi. Il frigorifero, la lavatrice, l’utilitaria, sono le prime conquiste della raggiunta promozione sociale. La 600 diventa lo status symbol di chi si è affrancato dal bisogno. Nessuno pensa più all’America, ora. Ma è anche tempo di por rimedio ai danni delle bombe che hanno devastato il Lungoticino e distrutto il ponte coperto. Sorgono insignificanti palazzoni che alterano la tipica caratteristica ambientale, segnata dai tetti rossi digradanti verso il fiume. Pochi, però, sembrano preoccuparsi di quegli eventi. La cultura urbanistica non ha ancora approfondito il tema della tutela. E tuttavia c’è chi esprime dubbi, perplessità. Emerge rammarico per la città che muta volto sotto i colpi impietosi del piccone, che perde, via via, i suoi tipici connotati, esaltati nelle letterarie descrizioni di Ada Negri e liricamente cantati da Cesare Angelini. Quelle voci, dissonanti e addolorate, riecheggiano dentro il “Bottegone”, dove appaiono, a chi entra dalla porta a vetri di via Bordoni, tre lunghi e larghi tavoli uniti in unica soluzione, coperti di giornali e con tante “postazioni” (ognuna dotata di macchina per scrivere) quanti sono i redattori della “Provincia Pavese” che lì, nel “bottegone”, appunto, nel cuore del Centro storico, apre al pubblico la sua spartana ed unica sede. Appena dentro, varcata la soglia, a sinistra, uno slargo, una sorta di nicchia, chiusa in parte da un polveroso paravento e, dietro, un altro tavolone, al quale siede, non visto, ma pronto ad ascoltare ogni voce , protetto da pile di giornali e di carte ingiallite, il Direttore, Abele Boerchio. A un capo del tavolo del direttore, seduta davanti a un tavolino occupato da una vecchia Remington, appena successiva al cembalo scrivano, vi è la signora Noè, la segretaria. E’ lei che trascrive a macchina, copiandoli da minuscoli foglietti rettangolari, vergati con una grafia inclinata e regolare, i testi scritti dal dottor Boerchio, che è anche il proprietario del giornale, a lui affidato, all’indomani della Liberazione, dal CLN provinciale. Fu Giuliana Boerchio, la figlia del direttore, lei che allora non si occupava del giornale, ad indirizzarmi dal padre che era in cerca di un giovane desideroso di intraprendere il “mestiere” di giornalista. Avevo poco più di vent’anni, studente, militavo nella Federazione giovanile repubblicana, mi attirava l’idea di lavorare per una testata dal glorioso passato risorgimentale. E mi sentivo attratto anche dalla storia politica di Boerchio, mazziniano, antifascista. Rappresentava la continuazione ideale della tradizione democratica repubblicana , particolarmente radicata a Pavia. Mi presentai alle 10 di mattina di un lunedì di fine aprile. Il “bottegone” era al completo. Fui avvolto da una cortina di fumo, oltre la quale riuscii a intravvedere le persone sedute al tavolo di lavoro: c’erano Antonio Cavallotti, Tagliasacchi, gli sportivi, impegnati a scrivere le cronache e i commenti della precedente domenica ricca di spunti, dal basket all’atletica, dalla boxe al calcio (il Pavia giocava allora in serie C) e poi, nel prosieguo, Resy Spalla, cronista a tutto campo, che spaziava, in solitudine, dalla nera alla bianca, senza trascurare la mondanità di un gossip allora inusuale, che lei affidava ad esilaranti corsivi, riquadrati in prima pagina. E, infine, Federico Binaghi, il capo redattore, persona di una certa età, dal volto aperto e rassicurante. Binaghi mi pilotò nella nicchia, al cospetto del direttore. “Sei tu che vuoi fare il giornalista?”mi chiese Boerchio, con tono perentorio, scrutandomi dal profondo dei suoi occhi grigi al di sopra della montatura di un occhialino a “prinzennè” che gli stringeva il naso, quasi a cogliere nella mia risposta un senso di incertezza. “Sei sicuro di farcela? Sarà dura” – aggiunse. Annuii, con un cenno del capo. “Quale sarà il mio compenso?”, dissi. “Trentamila al mese, non una lira di più”, rispose, “e sarai tu ad occuparti anche della politica locale. Seguirai i lavori del consiglio comunale e del consiglio provinciale, per ogni resoconto pubblicato avrai un supplemento di mille lire ”. Ebbe inizio così la mia magnifica avventura giornalistica, protrattasi per più di un decennio, con l’aggiunta di un posto nuovo al lungo tavolo del “bottegone”, alla “Provincia Pavese”. Un anno dopo, a rinfoltire l’organico della cronaca, arrivarono in redazione anche Annibale Carenzo e, per un più breve periodo, Silvio Morani. Quelli che seguono, fino al ’60 e oltre – dopo la morte dello storico direttore ultraottantenne - sono anni densi di avvenimenti. Molte nubi si profilano all’orizzonte. La stagione del benessere comincia a subire pericolose perturbazioni. Pavia finisce nell’occhio del ciclone con il crac della Sfi, una finanziaria che ha rastrellato miliardi garantendo tassi altissimi di interesse. L’economia della città e della provincia registra pesanti sintomi di crisi. L’edilizia diventa una delle poche attività emergenti, ma porta con sé, mossa solo da un’ansia di speculazione selvaggia, gravi insidie per il centro storico. Le ruspe scavano tra le mura antiche della civitas longobarda, sventrando preziosi edifici, demolendo storiche vestigia, profanando nel sottosuolo le fognature di epoca romana. Si alzano parecchie voci, quella di “Italia Nostra”e di alcuni difensori civici tra i quali è doveroso ricordare l’architetto Ignazio Stabile (Pavia deve molto a questo professionista, non pavese, strenuamente schierato a difesa della sua integrità urbanistica), che sollecitano al risveglio la coscienza della comunità. La Provincia Pavese, fedele alla sua tradizione democratica e civile scende in campo contro i “nuovi barbari” che deturpano il volto storico della città per combattere una dura battaglia. E contro di lei si scatena una reazione violenta. Vien fatto nascere un nuovo giornale, per sostenere gli interessi di chi vuole continuare a costruire anonimi palazzacci sulle fondamenta e sul tracciato del cardo e del decumano. Molti redattori della testata cittadina cedono alla tentazione delle sirene avversarie e passano al foglio concorrente. E’ una occasione per “La Provincia” per rinnovarsi, per correre ai ripari. Si installa una nuova tipografia, una rotativa a due colori (che sostituisce una anacronistica macchina piana) garantisce una nuova e più moderna veste al giornale. I corsivi intriganti compaiono dall’altra parte lasciando spazio, sulle pagine della “Provincia”, a più impegnativi argomenti. Entrano nuovi redattori che si formeranno nella dura competizione di ogni giorno. Sono Giuseppe Lucchelli, Mario Nicosia, Giuseppe Botteri, Nando Azzolini, Tino Schinelli e tanti altri ancora. La gloriosa testata continua il suo cammino al servizio della città.