Il disagio di un grande Paese
apre la strada al “populismo”
di GIOVANNI DOMASCHIO
La vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile, per molti scontata, sembra essere l’ennesimo sintomo di un globale spostamento del quadro politico istituzionale verso la destra populista. È una notizia che ha interessato politici, giornalisti, osservatori internazionali, ed ha suscitato preoccupazione in vasti settori dell’opinione pubblica mondiale. Di Bolsonaro colpisce il linguaggio cruento, l’accentuata ed ostentata omofobia, la predilezione per le armi, il disprezzo nei confronti delle minoranze etniche o di qualunque altra natura. Tutto ciò lo accomuna – pur con qualche differente sfumatura lessicale - ai nuovi demagoghi della eversione europea, sia nella retorica aggressiva che nelle posizioni reazionarie. Occorre domandarsi, tuttavia chi è Bolsonaro . E’ davvero una figura riconducibile a quella di un nuovo Salvini latino americano? Per individuare una risposta, è necessaria innanzitutto una precisazione: il termine populismo, per propria natura, è piuttosto vago, e non identifica uno solo o un gruppo ristretto di fenomeni sociali o di regimi politici rintracciabili lungo il corso della storia. Detto questo, vi sono delle caratteristiche che delineano solitamente i populismi: un demagogo carismatico e forte; una azione sorretta da una propaganda retorica volta a creare un immaginario appiattito, una semplificazione della realtà nella quale lo scontro avviene tra due sole entità metafisiche, il “bene” e il “male”; un’idea di popolo come massa omogenea e indistinta, priva di differenze , non composta da individui, portatori di istanze talvolta differenti e contrastanti. In questi ed altri tratti distintivi, i populisti nostrani e quelli che emergono ad ogni latitudine, tra l quali ora spicca Bolsonaro, sembrano coincidere perfettamente. La differenza che li distingue è nelle posizioni non tanto sociali o morali quanto economiche: Il nuovo presidente del Brasile è un liberista, pronto anche a svendere porzioni di foresta amazzonica pur di trarne apparente vantaggio, e questo in netta contrapposizione agli atteggiamenti protezionistici ai quali i populisti di tutt’Europa ci stanno abituando. Osservando attentamente ciò che sta accadendo in Brasile ci si può accorgere che, sia la sinistra europea, apparentemente in lutto dopo questa ennesima disfatta a livello mondiale, che i populisti del vecchio continente, inneggianti alla vittoria dell’estremista brasiliano, interpretano la situazione con le lenti sbagliate: l’unica a risultare sconfitta, come è già accaduto troppe volte, è l’America Latina stessa, le cui democrazie sembrano essere inevitabilmente portate all’autodistruzione. Bolsonaro non è, né una conseguenza della crisi globale della sinistra liberal, né un amico dei protezionisti delle destre sociali europee: non condivide gli ideali sociali coi primi tanto quanto non condivide le politiche economiche dei secondi. Il neopresidente Brasiliano è unicamente conseguenza del fallimento della democrazia brasiliana, dominata da Lula e dal Partido dos Trabalhadores, senza che vi fosse alternanza politica o qualsiasi altro strumento volto a evitare che dilagasse la corruzione, inevitabile conseguenza dell’egemonia di un solo partito al governo. Bolsonaro non è altro che l’ennesimo populista latino-americano ad arrivare al potere nel proprio paese, esattamente come nei casi di Perón, Pinochet, Chávez, Fujimori ed innumerevoli altri. La preoccupazione a livello mondiale, non dovrebbe affatto essere quella di avere a che fare con un altro populista di destra, ma capire perché, in tutta l’America Latina, permane questa fragilità delle democrazie, puntualmente travolte da corruzione prima e da populisti in veste di salvatori poi, nella speranza, un giorno, di poter vedere una o più democrazie davvero stabili nel Sud del mondo.